I Bitcoin miner devono essere schedati. Questa la proposta che ha dell'ironico, ma che è stata suggerita al Senato USA durante una audizione.
Ha dell’incredibile ma è tutto vero, durante una audizione in una sottocommissione del Senato degli Stati Uniti d’America che si occupa della tratta degli esseri umani, un esperto ha affermato che gli USA si devono dotare di una legge più stringente sulle criptovalute. Secondo questo esperto le criptovalute verrebbero usate per la tratta degli esseri umani.
La soluzione, al termine del ragionamento di questo esperto, fa ricadere sui miner tutta la colpa, perché sono loro, in ultima istanza, i veri gestori delle reti. A loro il compito di validare le transazioni, di garantire la sicurezza della rete e la stessa operatività a 360 gradi delle blockchain pubbliche.
I miner dovrebbero essere registrati quindi, in un apposito registro come qualsiasi altra società finanziaria. Insomma una schedatura dei miner.
In pratica, ciò che propongono questi “esperti”, è di controllare l’accesso dei miner alle blockchain permissionless. Ci si domanda, però, come questo potrebbe diventare fattibile. Inoltre, ammettendo anche che gli USA dovessero riuscire nell’intento creando una task force di agenti apposita, l’azione di regolamentazione dei miner avrebbe valore solo negli USA.
Come noto, in Cina e in altre parti del mondo (Islanda, Svezia, ecc.) vi sono alte concentrazioni di mining farm di grandi aziende del settore. Si tratta di aziende note come Cloud Mining, ma anche di produttori cinesi di ASIC miner.
Senza dimenticare le migliaia di persone che fanno il mining in casa ovunque nel mondo… Insomma, la proposta avanzata alla sottocommissione del Senato USA appare quanto meno ironica.
Secondo Peter Van Valkenburgh, direttore delle ricerche di Coin Center, intervistato da Coindesk, questa proposta significherebbe un ban al mining delle criptovalute negli USA, da parte degli individui privati e delle società operanti nel settore.
Privati cittadini e aziende statunitensi dovrebbero ottenere complicate e costose licenze per continuare a operare, costringendoli di fatto a dismettere l’attività condotta sulle blockchain pubbliche (permissionless).
Ammettendo per assurdo che ciò dovesse essere applicato, come si farà a vietare a un cittadino statunitense il noleggio di apparecchiature atte al mining presso mining farm straniere? Questo consentirebbe a numerosi investitori di aggirare i divieti e semplicemente di continuare l’attività all’estero.
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Da un punto di vista del controllo, gli USA dovrebbero impiegare numerosi esperti dedicati notte e giorno all’attività di ricerca di bitcoin miner illegali sul territorio americano. Scovare i “miner illegali” a stelle strisce potrebbe richiedere anche milioni di dollari di tasse versate dai contribuenti.
La paura e la mancanza di conoscenza spinge sempre a rintanarsi, ad alzare divieti, a installare campi minati ovunque.
Prendendo a prestito la riflessione di Peter Van Valkenburgh, vi immaginate se nel 1998 il Governo degli Stati Uniti di allora avesse bloccato l’accesso a Internet perché accusato di essere un facilitatore del crimine?
Se ciò fosse avvenuto, immaginate cosa sarebbe oggi il web? Oggettivamente, le maggiori innovazioni tecnologiche e “digital-social” degli ultimi decenni provengono dagli USA.
I motori di ricerca (non solo Google), i social network prima e dopo Facebook; i servizi di messaggistica istantanea come WhatsApp.
Il ban ai bitcoin miner, il ban alle blockchain pubbliche, potrebbe precludere agli USA strade che ancora non immaginano.
Writer freelance dal 2013 ha studiato informatica e filosofia ed anche un pizzico di sociologia. Nel 2016 ha scoperto la crypto economy e da allora scrive di blockchain e criptovalute, per approfondire un movimento che non è fatto solo di esperti matematici e crittografi, ma di gente che genera una nuova economia dal basso.